CAPITOLO SETTIMO
Punti oscuri
Quando, due giorni dopo, raccontai la mia storia al sottotenente, egli non fece commenti. Restò a guardare la valle, che stava rischiarandosi alla prima luce dell’alba, guardò le montagne dirimpetto e non disse nulla. In verità, m’aspettavo qualche ottima citazione. Avrei scommesso il denaro che avevo in tasca (anche il denaro rubato) che per fedeltà al suo timido cinismo avrebbe rammentato qualcuno dei suoi autori. Oppure, temevo una parafrasi suggeritagli dal suo umore giovanile e imprudente. O qualcosa sul Paradiso che si conquista, a volte, con le pessime azioni. O la rinunzia a cavare una morale da fatti che obbediscono al caso, e quindi, la rinuncia a cercare una morale in tutto il giuoco umano delle probabilità. Invece restò zitto, immobile a guardare la valle. Temetti che il racconto delle mie avventure l’avesse spinto al sonno, ma non era sdraiato e vedevo la punta del suo sigaro illuminarsi a tratti. Forse pensava. O trovava la mia storia poco convincente e rimpiangeva le ore rubate al sonno. A meno che non ascoltasse le voci dei soldati che ancora cantavano di gioia per quell’ultima notte da trascorrere sul ciglio della valle. Alla sveglia, saremmo partiti verso la costa, per imbarcarci dopo quattro giorni. Dopo altri otto giorni, l’Italia.
Sarei partito anch’io. Ero arrivato due giorni prima, pronto a dire; “Eccomi”, e a seguire l’ufficiale dei carabinieri che mi avrebbe condotto, pensavo, in qualche fortezza della vecchia colonia. Rinunciavo ai miei complici, non lieto di espiare, ma stanco di attendere; e trovai il campo in subbuglio per l’ordine di rimpatrio. E nessuno mi cercava, non c’erano denunce contro di me. Quando il capitano seppe che non avevo “usufruito” la licenza in Italia, disse che mi avrebbe proposto per gli arresti. Poi aggiunse che me lo sarei meritato e andò via per non ridere. Passando dietro la sua tenda, sentii che raccontava ad altri la mia avventura. Ero sempre l’uomo del “dente” e della corsa all’oro. Stavolta, invece di tornare in Italia, chissà cos’avevo fatto. Forse una donna, la solita donna. Rideva. Dunque, nemmeno gli arresti semplici da segnare sul foglio matricolare.
Non c’erano denunce. C’era soltanto una lettera di Lei, ma non l’ho ancora aperta. Comincio a credere che dovrò abbandonare anche il mio ultimo complice. Per quel suo volto dei momenti gravi, ho ucciso la donna. Il dottore del cantiere non sarebbe venuto, ma io l’ho uccisa egualmente. Dovrò lasciarla. Credevo che la sua malinconia le venisse dall’esperienza del cuore e fosse meditatissima e sentita. Ora dovrò convincermi che in lei è soltanto una traspirazione organica, un alito freddo e fetido. Forse lo stesso fiato che mi angustiava un tempo, rammentandomi ciò che più temevo. Se lei dovesse entrare in acqua senza spogliarsi, facendomi cenno di seguirla, starei fermo sulla riva, incapace di accettare le leggi della sua ipocrita pazzia.
Dunque, nessuno mi cercava, il maggiore di A. e il dottore, meno di tutti. Ero arrivato pronto a dire; “Eccomi”, e il carabiniere di guardia mi fece il saluto. Nessuno si curò di me. Il postino dovette rovistare la tenda, non trovava la lettera. E io già sentivo che, la trovasse o no, la cosa non aveva importanza. Non l’ho ancora aperta.
Quella notte, ero invece stupito del silenzio del sottotenente. I soldati non smettevano di cantare, aspettavano l’alba, per convincersi che non v’erano contrordini sul sorgere del sole. Ancora quattro giorni e poi il fremere delle macchine del piroscafo li avrebbe rassicurati del tutto. Non avrebbero trovato nemmeno la forza di salutare la folla della banchina. Quando, impaziente di rompere il silenzio, chiesi al sottotenente; “Ebbene?”, mi rispose che la mia storia presentava alcuni punti oscuri. Ero disposto a riconoscerlo, e allora egli aggiunse che potevano ridursi a quattro: il turbante della donna, le piaghe, il massacro al villaggio e la mancata denuncia del maggiore di A.
“Sì” ripetei, grato che non avesse accennato al coccodrillo. Avrei voluto aggiungere: il dottore. Ma il dottore non mi appariva più un punto oscuro, anzi troppo luminoso. Potrò infatti perdonargli di non aver sporto denuncia? quel misantropo voleva invitarmi ad accettare la mia condizione di “intoccabile”, ma non impormi quella di imputato. Forse pensava che era già sufficiente la condanna scritta sulla mia mano (fasciata con troppa cura), per aggiungerne altre nei registri di un tribunale. Il più debole ha vinto. Gli avevo attribuito i miei risentimenti. Debbo dedurne che, nei suoi panni, avrei sporto denuncia: e così la nostra improvvisa amicizia è stata uccisa non da quel colpo a vuoto, ma dalla mia gretta immaginazione. Potrò perdonargli, dunque, questa colpa che segna i miei limiti?
“Sì” ripetei. E pensavo: “Passeremo per A., tra poche ore, e lo vedrò seduto tra gli eucalyptus del suo boschetto, sempre più irraggiungibile, circondato da un disordine che imparerò ad apprezzare”. Poi per rompere il silenzio, dissi: “Il massacro del villaggio non mi sembra un punto da chiarire. Purtroppo è avvenuto, e sappiamo come”.
“Ma non sappiamo perché” rispose il sottotenente “e sarà bene tentare di immaginarselo. Il massacro ti apparirà più chiaro quando saprai che il giovane violinista (quello stesso che tu vedesti passare melanconico nella boscaglia e poi ritrovasti impiccato a meditare sulla sua ventura) si recò al cantiere supponendo che la donna vi fosse stata condotta da qualche ufficiale in vena di matrimoni. Vi si recò per chiedere di lei.”
“Ebbene?” chiesi. (Pensavo che il sottotenente aveva un’inguaribile tendenza alle complicazioni.)
“Ebbene,” continuò “gli operai del cantiere, sempre in cerca di un pretesto per divertirsi, fecero credere al giovane che la donna era realmente al cantiere, chiusa in una tenda. Forse quella del dottore? Inutile chiederselo. Ne seguì che il giovane, frenando la gelosia (che costoro evitano perché danno alle cose il loro giusto valore), attese sino al tramonto, e forse lo scherzo gli parve eccessivo. Allora, con la canna, sciupando irrimediabilmente la sua carta di sottomissione, colpì un operaio. “
“Un operaio?” chiesi.
Quasi prevenendomi, il sottotenente rispose: “Sì, e possiamo almeno sperare che si tratti dell’operaio biondo”.
“E impiccarono il giovane per questo?” chiesi.
“No. Disgraziatamente, la notte stessa ci fu l’attacco al cantiere, i briganti vennero respinti, portarono via qualcosa, lasciarono qualche cadavere. Gli operai, disgraziatamente, riferirono l’attacco alle minacce del giovane, anzi, lo credettero istigato da lui. E, il giorno dopo, disgraziatamente, passarono gli zaptié, più preoccupati di offrire un esempio, che di aprire una inchiesta. Bastò il sospetto.”
“Capisco,” dissi “e se non sbaglio, tu tenderesti a far ricadere la responsabilità del massacro sul mio colpo di rivoltella. Di questo passo, l’avvenire dell’Africa sarà stato compromesso dal mio colpo di rivoltella.”
“ No,” disse il sottotenente “ma il massacro conclude un seguito di disgraziate circostanze iniziato dal tuo colpo di rivoltella. E, a sua volta, il tuo colpo di rivoltella conclude un altro seguito di disgraziate circostanze. Quale fu la prima di queste? Se potessimo saperlo, avremmo la chiave della tua storia. Invece, così, ci appare non più importante di una partita ai dadi, dove tutto è affidato al caso. Quale fu la prima disgraziata circostanza? L’autocarro rovesciato? Il bivio nascosto dalla carogna? La tua sosta al torrente? La tua paura? La pietra che deviò il colpo? La bestia? O i pacchi di dolciumi che ti inviava Lei? Oppure, semplicemente, il dente che ti doleva? Sarebbe opportuno, almeno, sapere se era il dente del giudizio.”
“ No,” dissi “non era il dente del giudizio.”
“Bene,” seguitò “ecco un motivo di consolazione. Ma siamo daccapo. Come tutte le storie di questo mondo, anche la tua sfugge a un’indagine. A meno che non si voglia ammettere che le “Disgraziate circostanze” ti seguivano, perché facevano parte della tua persona. Obbedivano soltanto a te. Eri tu, insomma. Ma dove rifarsi? Come cavarne una morale? Eccoti diventato una persona saggia, da quel giovane superficiale che eri, e solo per virtù di qualche assassinio che hai commesso senza annettergli la minima importanza. Mi congratulo.”
Tacemmo. L’aver ucciso Mariam ora mi appariva un delitto indispensabile, ma non per le ragioni che me l’avevano suggerito. Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso. Amavo, ora, la mia vittima e potevo temere soltanto che mi abbandonasse.
Oltre il ponte urlavano gli sciacalli, eppure il giorno si stava annunziando. Dirimpetto, oltre il ciglio emergevano le tetre montagne della regione dove, a distanza di cento e più chilometri l’uno dall’altro, piccoli conventi ospitano persone che vanno là a cercare soltanto la solitudine. Probabilmente, una solitudine diversa da quella che ci rende tristi nelle città, e ci spinge nelle strade, nei caffè, nei teatri, per confortarci al calore di un’umanità altrettanto triste. Ma possono vivere, sotto quel cielo che chiude l’orizzonte come un sipario e tra quelle nere montagne di basalto che a primavera fioriscono?
“Seguitiamo” dissi. “Ora, il turbante.”
“Seguitiamo” ripeté il sottotenente. Aggiunse che questo punto gli sembrava difficile a chiarirsi. “Perché la donna aveva il turbante se non era infetta e, quindi, intoccabile? “
“Vorrei saperlo da te” risposi. “Anzi, se non risolviamo questo primo quesito, inutile porsi il secondo.”
Il sottotenente fece cenno di sì con la testa e annunciò che avrebbe avanzato due ipotesi. “La prima,” disse “è che tu hai visto il turbante dopo”, quando nel cortile della chiesa abbiamo accostato le due ragazze che l’avevano realmente.”
Scoppiai a ridere ed egli osservò che quell’ipotesi non avrebbe dovuto sorprendermi. Non avevo, forse, un concetto molto chiaro della memoria e delle sue anticipazioni? E continuò. La seconda ipotesi richiedeva un paragone. La donna s’era messa un turbante per lavarsi, ma sapeva di commettere sacrilegio o per lo meno un atto assurdo. Come avrebbe osato, in questa terra dove (e qui il sottotenente calcò le parole) si conservano alcune qualità che altri popoli vanno perdendo, la fede, soprattutto, e il rispetto del culto? “Cerchiamo” disse “di impiantare un paragone. Entriamo in una delle nostre case e non c’è nessuno a riceverci. Avanziamo nei corridoi e infiliamo per sbaglio (sì, per sbaglio) la stanza da bagno. Là, sorprendiamo la padrona di casa, nuda, intenta a lavarsi. Spettacolo comunissimo. È il suo modo di volersi bene e di passare il tempo. E in testa, la bagnante, ha un cappello da prete.”
“Esatto” dissi. “Ma in quale casa vedrai uno spettacolo tanto poco comune?”
Il sottotenente, a bassa voce, disse: “In una casa di salute” e io non potei tenermi dal ridere. Dunque, Mariam era pazza! Mi sembrò inutile confutare la sua ipotesi e dissi:
“Seguitiamo”.
“Seguitiamo” ripeté il sottotenente. Ma tacemmo. “Tra quattro giorni” pensavo “L’imbarco a Massaua.” I soldati si sarebbero ubriacati di sole e di vino. Poi il Mar Rosso, un caldo e melanconico mare e, infine, Port Said. Dell’Africa ci sarebbe restato come un ultimo ricordo la enorme réclame del whisky all’imbocco del porto. È il primo monumento che si vede dell’Africa, arrivandoci e l’ultimo, lasciandola.
Il secondo punto oscuro erano le piaghe. Quando feci osservare che potevano essere causate da disturbi alimentari, il sottotenente scosse la testa. “Tentiamone, comunque,” dissi “una spiegazione razionale. Forse furono prodotte da un avvelenamento del sangue. La quaresima al villaggio e gli impiastri di Johannes le guarirono. Tutto sommato, non sono un punto oscuro,” conclusi “benché la prima figura del libretto fosse la mia mano.”
Il sottotenente pensò a lungo prima di parlare, poi disse che non reputava capace un indigeno di guarire piaghe prodotte da intossicazione del sangue. “Piaghe di lebbra, sì” aggiunse. “Qui siamo nella metafisica, e Johannes accetta la metafisica. Ma piaghe d’altro genere, no. Le lascia guarire ai “signori”; e questo, fortunatamente, segna la loro superiorità.”
“E allora?” dissi.
“Allora, le piaghe non si discutono, ma si accettano.” E, poiché sorrisi, il sottotenente disse che avremmo potuto anche tentarne una spiegazione razionale, ma tra dieci anni. “No,” dissi pronto “accettiamole senza discutere.” Ridemmo. Dall’accampamento veniva adesso un brusio di voci; i soldati avevano smesso di cantare e cominciavano a prepararsi. Sui fuochi della cucina bollivano le marmitte del caffè.
“Mi piacerebbe conoscere” disse il sottotenente “la risposta di Lazzaro a chi gli chiedeva che cosa avesse visto nell’aldilà. Probabilmente Lazzaro, sempre con la testa tra le nuvole, avrà risposto che non ci aveva badato.” Ancora tacemmo. Forse tutti e due pensavamo a Johannes: pensieri che vengono quando si guarda una valle che si illumina nella fumosa alba di un giorno tanto desiderato. Pensavo a Johannes, ai suoi impiastri, al suo ultimo saluto sul ciglio della collina.
“Resta il maggiore” dissi. E aggiunsi: “Questo punto oscuro vorrei illuminarlo io. È chiaro” qui risi “che il maggiore ha avuto paura”.
Le montagne erano emerse dall’ombra, il sole le colpiva di sbieco, mentre la valle sembrava essersi assopita, come il malato d’insonnia che aspetta la compagnia del sole o il fruscio della scopa dello spazzino sul selciato, prima di decidersi al riposo. Non si udiva più l’urlo delle fiere e la brezza notturna cedeva già all’afa del mattino. “Resta il maggiore” ripetei.
Il sottotenente accese un altro sigaro; poi disse: “Sì, il maggiore ha avuto paura e ha rinunciato alla denuncia. O forse non ha avuto paura e l’ha rinviata soltanto. Difficile dirlo”.
“Vi ha rinunciato” dissi. “Come avrebbe giustificato i suoi guadagni? Ha avuto paura di perderli, ecco tutto.”
Rividi il maggiore passeggiare sulla banchina e guardare le casse scaricate con sovrumana fatica dai seminudi indigeni. Le guardava sempre coi suoi occhi che non sapevano dissimulare una furberia acquisita di recente. E girava lo sguardo, come un trattino d’unione, al camion color turchino che riposava all’ombra, vicino al bar.
“Troppo semplice” disse il sottotenente. “Ma sarà bene sincerarsi sulla sua paura. La paura ha infinite gradazioni e può essere classificata. C’è la paura che afferra prima, ed è la paura dei saggi e dei prudenti; la paura che... Ti annoio?”.
“No,” dissi “continua.” (In verità, pensavo che il sottotenente aveva non solo la tendenza ma il vizio delle complicazioni.)
“La paura” continuò “che afferra dopo”, ed è quella dei coraggiosi; e c’è, infine, la paura che afferra durante, ed è quella che uccide (come tu hai giustamente osservato), o che rende vili. Ora, io sono molto dubbioso nel classificare la paura del maggiore. Sei ben certo di aver tolto il dado?”
“Eccolo” dissi, traendolo di tasca. Il sottotenente osservò il dado e lo fece ballonzolare sul palmo della mano: sembrava poco convinto. Io pensavo che mi sarebbe dispiaciuto incontrarmi a Massaua col maggiore. Avrei potuto restituirgli il denaro, anzi dovevo restituirglielo, ma perché incontrarlo? “Non potrà riconoscermi” conclusi. “Ho la barba molto più lunga di quando l’incontrai la prima volta e mi ingiunse di radermi.”
Poiché il sottotenente restava silenzioso, lo pregai di continuare. Ed egli a fatica (forse aveva sonno), disse: “Questa valle ha due versanti. Noi siamo sul ciglio del versante nord, tu hai tolto questo dado al camion del maggiore sul ciglio del versante sud: lassù, se non sbaglio” e il sottotenente indicò il ciglio opposto, che si stava colorando di rosa. “Preoccupato della denuncia, ti sei considerato sconfitto quando hai visto il camion sulla strada che conduce al ponte, cioè al telefono del posto di blocco. Invece, il maggiore proseguì senza telefonare”.
“Certo,” dissi “ma perché proseguì senza telefonare? Forse il telefono era guasto e, strada facendo, il maggiore avrà considerato con prudenza la sua situazione, rinunciando infine alla denuncia. La paura lo afferrò prima, insomma.” “Può darsi,” disse il sottotenente “ma stento a credere che il maggiore abbia avuto paura di essere denunciato. No, se il maggiore commerciava doveva avere le spalle coperte, forse era l’ultima pedina di un giuoco più vasto.” E aggiunse: “Avrebbe dovuto temere la denuncia di un ufficiale colpevole di furto e già ricercato per tentato omicidio?”.
“Forse” dissi.
“No,” rispose il sottotenente “non avrebbe dovuto temere nulla. Tant’è vero che tu temevi la denuncia e, appunto per renderla impossibile, hai tolto il dado, credendo così di interferire nel destino del maggiore.”
“E allora?” chiesi.
“Allora, ci resta una sola ipotesi. Se passò il ponte senza telefonare (escludiamo che il telefono fosse guasto, perché la linea è doppia), dobbiamo supporre che non voleva telefonare nemmeno una volta raggiunto l’altopiano. Ossia, dobbiamo supporre che non voleva denunciarti. E questa decisione non la prese strada facendo; la prese, invece, risalendo sul camion dopo la discussione che ebbe con te. Che gli sarebbe costato, difatti, tornare indietro? Oppure, rifiutarsi di proseguire? Avresti sparato? No, dovevi evitare ogni complicazione. Dunque, rinunciò sin dal primo momento alla denuncia. Non dando peso alle chiacchiere di Mariam egli s’era già rassegnato all’idea del furto. Inconsciamente rassegnato.”
“Siamo daccapo” dissi. “Perché non ha voluto denunciarmi?”
“Lo lascio giudicare a te” rispose il sottotenente. “Per pietà, immagino. O forse perché accettò il tuo consiglio di rifarsi del denaro con un altro viaggio. Escludo, comunque, la paura. Il maggiore non può avere provato paura.”
Tacque; e fu allora che gli chiesi se il maggiore era morto. Avevo già sospettato qualcosa dalle sue reticenze, ma la breve risposta mi sorprese egualmente. Anzi, sulle prime rifiutai di crederci. Forse, pensavo, era questo il macabro pretesto del sottotenente per divertirsi alle mie spalle. Soltanto quando ebbe ripetuto più volte la frase, sorpreso anche lui che non accettassi la fine toccata al maggiore, dovetti arrendermi. Non scherzava. “Il maggiore” disse “passò il ponte ma non raggiunse mai l’altopiano.” E concluse: “Non può aver provato paura, dunque, ma solo spavento o sorpresa”.
Stava divertendosi, esaurendo le ultime battute, per concludere senza rimorsi quella lunga notte, l’ultima della nostra amicizia. Vedendomi silenzioso (rammentavo il maggiore seduto sul letto di Mariam, intento a strofinarsi il petto bianco e femminile, e il suo volto aperto in un sorriso di indubbia simpatia), il sottotenente divenne improvvisamente serio e disse che potevo non averne colpa. Molte sono le cause che fanno precipitare un autocarro, anzi di autocarri che ribaltano è piena l’Africa. Avremmo facilmente appurato la causa, se avessi voluto. “Se la vite è al suo posto,” concluse “nessuno ha colpa. Tanto meno il dado.”
Non risposi. Era passato senza telefonare, ma non aveva raggiunto l’altopiano. Forse era precipitato per altre cause, dopo aver riparato il danno. Ma chi aveva tolto il dado? Io, forse? Io, quel giovane insolente che consultava l’orologio sul ciglio della strada, tremando al pensiero che l’autocarro non fosse caduto? Io, che sin dal primo momento m’ero riservato una parte nella storia del maggiore? “Bene,” pensai “la storia del maggiore è finita, ma la mia comincia appena.” La tromba stava suonando la sveglia e, alle prime note, scoppiò il grido dei soldati. Ormai erano tutti in piedi a smontare le tende. Gridavano per acclamare il giorno della partenza, meravigliati che fosse venuto davvero. Aizzato da quelle grida, il trombettiere ripeté il segnale, vi aggiunse stecche e comiche variazioni, poi venne a ripeterlo sul ciglio della valle. Voleva che tutti sentissero la sveglia del giorno che aveva atteso per due anni.
“Si può appurare subito, se vuoi” ripeté testardo il sottotenente.
E la sentivano tutti, ma nessuno poteva muoversi. Non potevano muoversi quelli delle cassette, sotto la sabbia calda del fiume. Né gli impiccati o l’abissino che indica il cielo (e chissà che non vi veda qualcosa di più del suo aeroplano). Né poteva muoversi la donna, benché io sappia che sotto il turbante muove la testa, quando prendo la mira. Nessuno poteva muoversi da quella valle, eccetto io. Ma la mia storia cominciava appena e il maggiore aveva rinviato la denuncia; rinviato soltanto. Perché era passato senza telefonare? Per un attimo, quando eravamo nella cabina del camion, mi posò la mano sulla spalla e sentii una mano stanca, una mano che tradiva l’euforia del suo volto e la sua seconda giovinezza.
Il sottotenente insisteva: “Possiamo controllare subito se la vite è al suo posto. Vuoi?”.
Non risposi. Perché rispondere? Ne stava facendo una questione da meccanico. Scendere in una forra, forse in quella stessa che s’apriva sotto di noi, esaminare una carcassa, togliersi ogni dubbio? I dubbi confortano, meglio tenerseli. E poi, preferivo guardare la valle. Johannes doveva già essersi levato, forse stava recandosi al fiume, seguito dal mulo.
Quando il sottotenente si allontanò lungo il ciglio, scrutando nella forra e infine gettò il dado, e sentii quel secco rumore di ferraglia percossa (o forse erano le monete d’argento che avevo in tasca), non provai nulla. Il dado era a posto. Nessuno vince, è un dado senza punti, che ora è a posto.
Guardavo, dunque, la valle, quando suonò l’adunata e stavolta il trombettiere affrettava il tempo. Bisognava andarsene, rimandare a domani le considerazioni, salutare chi restava. Forse i soldati erano già pronti, dovevo ispezionare il plotone e bere il caffè: ma, soprattutto, bisognava andarsene da quella tomba ormai troppo familiare. Andai incontro al sottotenente e gli dissi: “Dobbiamo andarcene”. Poi aggiunsi: “Mi sembra inutile parlare di delitti visto che nessuno mi cerca”.
“ Sì,” rispose “proprio inutile.”
“Se nessuno mi cerca,” insistei “possiamo andarcene.”
“Tranquillamente” rispose. “Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri.”
“Meglio così” dissi. “Se nessuno mi ha denunciato meglio così. Tuttavia, non si ha diritto di essere tanto generosi.”
“O prendere o lasciare” concluse il sottotenente.
La tromba ripeté in fretta il segnale. Sembrava che lo ripetesse per noi, gli altri dovevano essere già tutti a posto, non si sentiva il minimo brusio. “È una tromba abbastanza comica per il mio Giudizio,” dissi “ma a ciascuno la sua tromba.” Lo dissi rivolto alla valle, che mi appariva in quegli istanti davvero unica e immortale.
“Non farti illusioni” disse il sottotenente. “Non ci saranno altre trombe. Le uniche che udrai sono queste, ma ancora per pochi giorni, poi ci daranno il congedo.”
“Eppure,” dissi “questa valle...” Ma non seguitai. (Inutile citare un autore, quando di un foglio del suo libro abbiamo fatto cartine per sigarette. Non è vero, Johannes?)
Non seguitai e ci avviammo verso il campo, perché stavano arrivando gli autocarri. Camminavo accanto al sottotenente e di colpo sentii il suo profumo. Certo, doveva ungersi i capelli con qualche preziosa pomata. Una pomata dal profumo delicato, infantile, ma il caldo la stava inacidendo. Una pessima pomata, che il caldo di quella valle faceva dolciastra, putrida di fiori lungamente marciti, un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva.
Postfazione
La mitologia che ormai accompagna la fortuna di Ennio Flaiano vuole che Tempo di uccidere, il suo primo romanzo, sia stato scritto nel 1947 su invito di Leo Longanesi in soli venti giorni e che la sua stesura non sia passata al vaglio di elaborazioni successive. Esistono, è vero, due scalette molto dettagliate che hanno lo stesso titolo del primo capitolo, “La scorciatoia”, ma non hanno indicazioni di data. Neppure Aethiopia. Appunti per una canzonetta (1935-1936), un diario che risale al periodo della guerra d’Abissinia e che è stato rintracciato tra le carte inedite dello scrittore (si trova ora nel volume Un bel giorno di libertà, Rizzoli, 1979), induce a ritenere che Flaiano pensasse già da tempo al romanzo poiché non vi sono spunti significativi che giustifichino tale ipotesi, al di là dell’evidente richiamo autobiografico. Sulla genesi di Tempo di uccidere non si hanno dunque precedenti.
Oltre a essere il primo libro di Flaiano, Tempo di uccidere è anche la sua opera romanzesca più compiuta. Altri testi narrativi li troviamo in Una e una notte e Il gioco e il massacro. Specialmente Oh, Bombay! e Melampus (che compongono Il gioco e il massacro) sono condotti con molta scaltrezza narrativa e sapiente capacità stilistica. Ma se il romanzo si regge su una sua idea e ha una sua dimensione, queste si trovano realizzate solo in Tempo di uccidere, che si situava allora al di fuori del provincialismo nostrano per ossigenarsi con aria europea. Caratteristiche singolari per un romanzo che usciva nel 1947 in pieno clima neorealista. La sua fortuna fu garantita dal successo alla prima edizione del Premio Strega, ma la critica fu quanto meno reticente. Forse perché la proposta narrativa di Flaiano risultava in quegli anni troppo diversa e nuova sotto ogni punto di vista: sul piano contenutistico, con quella guerra, quell’Africa, quei personaggi; stilistico, con quel linguaggio che propone il ricordo oggettivo e non la memoria estenuata, che tende al lirismo senza però indulgere al patetico; strutturale, con il protagonista che dice io, però questa volta l’autobiografia non è eroica ma esistenziale; e non c’è cronaca, mentre la ricostruzione psicologica si spinge fino ai limiti del saggismo. In altre parole Tempo di uccidere si inserisce decisamente nell’alveo esistenziale scavato dalla tradizione più classica del romanzo europeo novecentesco.
Il romanzo di Flaiano ci riporta al tema della guerra: ma la sua è una guerra chenon si rivela, nemmeno letterariamente, un serbatoio di storie esemplari da raccontare né di eroismi vitalistici da esaltare. Nel 1947, dopo la terribile esperienza della seconda guerra mondiale, nessuno aveva più voglia di ricordare la campagna d’Abissinia del 1936. Ma nelle pagine di Flaiano quella guerra e quell’Africa subiscono una metamorfosi radicale. Perdono, l’una, i suoi connotati esotici e cromatici più evidenti, l’altra, l’aspetto crudele o eroico che caratterizza in genere un’azione bellica; e acquistano, entrambe, una dimensione simbolica che nega sia la retorica del paesaggio sia l’eccezionalità della situazione. In questo contesto, anche i tratti del protagonista non corrispondono a quelli del modello di eroe positivo allora di moda, bensì riflettono un uomo comune che per una serie di circostanze fortuite si è trovato a vivere una esperienza particolare. Nella figura del giovane ufficiale italiano, come nell’avventura di cui è protagonista, non vi è nulla di eccezionale, anzi all’origine vi è la banalità più assoluta: un mal di denti e un viaggio da compiere alla ricerca di un dentista. Una situazione più gratuita e un personaggio più antieroe di così, quale fantasia di narratore poteva concepirli?
Se seguiamo il tracciato esteriore e l’itinerario interiore dell’avventura abissina del tenente di Flaiano, possiamo constatare come egli sia condizionato dal caso e come a poco a poco ne diventi prigioniero fino al punto di vedere nella casualità degli avvenimenti di cui è protagonista un segno del destino. Abbiamo già detto che non vi è nulla di eroico che lo metta sulla strada dell’avventura, anzi è un banale mal di denti; un altrettanto banale incidente stradale lo induce a prendere una strada piuttosto che un’altra. Però tutto sembra concatenato: l’incidente del camion e l’incontro con la ragazza indigena al fiume; l’amore e il ferimento casuale di Mariam che prelude alla sua uccisione; il fuggire da quel luogo per esservi continuamente ricondotto dalle circostanze; la paura della lebbra e la ossessionante presenza del padre e del fratello di lei che compaiono sempre all’improvviso quasi per ricordargli il suo gesto, il suo atto gratuito. Ma alla fine tutto si ricompone. Le paure del tenente erano infondate: nessuno ha scoperto il suo delitto, non aveva contratto la lebbra, può tornare in Italia presso di “Lei”, la donna lontana che gli ha fatto da interlocutore diretto e indiretto non solo, ma il pensiero stesso del male compiuto agisce quasi positivamente sulla sua coscienza.
Più che un cinico paradosso si tratta di una situazione esistenziale che suggerisce inevitabilmente una metafisica, così come l’hanno suggerita Les faux monnayeurs e L’étranger. Non a caso ci fu qualcuno, per esempio Francesco Jovine, che rimproverò a Flaiano di aver spinto troppo la sua vicenda sul piano del simbolo a detrimento di una maggiore concretezza reale. Ma Flaiano era molto più realista di quanto si potesse immaginare, se consideriamo che la sua realtà è quella più sfuggente dei sentimenti e del destino che presiede alle nostre scelte e ai nostri atti. Ai grandi avvenimenti esteriori egli opponeva i travagli interiori senza mitizzarli, ma rendendoli nello stesso tempo emblematici di uno stato di disagio tipico dell’uomo contemporaneo. E così una irrazionale tendenza al male che porta a un esercizio inconscio della violenza, al punto di provocare anche la morte, va intesa non come manifestazione eroica ma, semmai, egoistica: non il beau geste romantico bensì l’atto gratuito anonimo e inutile. In tutto ciò è adombrata l’interpretazione più crudele e spietata della sconfitta dell’uomo sul piano dell’umano.
Sergio Pautasso
Indice
CAPITOLO PRIMO
La scorciatoia
CAPITOLO SECONDO
Il dente
CAPITOLO TERZO
L’oro
CAPITOLO QUARTO
Piaghe molto diverse
CAPITOLO QUINTO
Il dado e la vite
CAPITOLO SESTO
La capanna migliore
CAPITOLO SETTIMO
Punti oscuri
Postfazione di Sergio Pautasso
Finito di stampare nel mese di agosto 1989
Dalla RCS Rizzoli Libri S.p.A. - Via A. Scarsellini, 17 - 20161 Milano
Printed in Italy